Edward RozzoAmericano di New York con solide origini italiane, Edward Rozzo frequenta sotto la guida di Harry Callahan la Rhode Island School of Design, dove nel 1970 si laurea in Belle Arti con specializzazione in fotografia contemporanea. Nel 1968, a 21 anni, "scopre" la fotografia di Mario Giacomelli e rimane folgorato dalla poesia e dall'emotività del noto fotografo ma anche tipografo, poeta e pittore italiano, e ottiene una borsa di studio per completare i suoi studi a Roma. Dopo la laurea ritorna subito in Italia e apre a Milano uno studio specializzato in fotografia pubblicitaria. Provenendo da una vera scuola di fotografia e insofferente ai vincoli imposti dagli art director alla sua creatività, scopre casualmente la fotografia industriale, nella quale trova il suo ambiente ideale dove dare libero sfogo alla sua arte e alla sua fantasia. Qui traccia strade per l'epoca nuove, applicando alla fotografia industriale tecniche della fotografia di moda. Lo incontro nel suo studio di Milano in una calda giornata di marzo per un’intervista davvero singolare. Leggendola capirete il perché.

od: Considerato che la fotografia all’università, in Italia, è ancora vista come una materia poco scientifica, ci racconti qual era l'approccio formativo dell'università di fotografia negli anni in cui l'hai frequentata?

Edward Rozzo: Inizialmente ci si concentrava sulle fondamenta comuni a tutte le arti: letteratura, storia dell'arte, psicologia, arti e mestieri (metallurgia, scultura, calligrafia, spazi tridimensionali, disegno dal vero, grafica, design 2D/3D). Il secondo anno si passava alle arti grafiche (grafica, serigrafia, tipografia, litografia) e si iniziava con le basi della fotografia. Solo al terzo anno si cominciava a occuparsi della fotografia vera e propria, mentre l'ultimo anno era privo di corsi: si lavorava liberamente e, ogni due settimane, si incontrava il proprio docente di riferimento, nel mio caso Harry Callahan, per mostrargli i propri lavori, discutere le proprie idee, affrontare le problematiche incontrate. Vi erano corsi di critica tra studenti, dove si mostravano i rispettivi lavori per discuterne con gli altri. Si trattava di una scuola molto legata al movimento della Bauhaus, alla sperimentazione, dove l'attenzione è rivolta a cosa si può fare con tutte le materie come il legno, la pittura, la ceramica, cosa può fare l'ottica, cosa può fare il piano bidimensionale o tridimensionale e così via. Ho imparato da Harry Callahan - un uomo semplice, schietto, genuino - come fare stampe a contatto che sono perfette ancora oggi, dopo quarant'anni. I suoi lavori erano già allora esposti al Museo di Arte Moderna di New York, quindi il suo approccio era improntato a una certa musealità verso cui ero insofferente. Per reazione stampavo fuori formato, incollavo le stampe sulla carta peggiore possibile.

od: Anche oggi graviti però intorno alla scuola.

ER: Sì, da sei anni tengo all'Università Bocconi un corso di critica della cultura visiva destinato ai manager del CLEACC (Corso di laurea in economia per le arti, la cultura e le comunicazioni), un corso per la gestione economica di progetti culturali per musei, teatri, ecc. In quest'ambito io cerco di fornire le basi di ciò che per me è la cultura, intesa non come cultura con la "c" maiuscola, quanto tutto quell'insieme di attività, sia negli aspetti più elevati che in quelli più banali e comuni, che ci fanno sentire parte di un gruppo unico, culturalmente affine.

od: Come vedi il rapporto tra fotografia e cultura?

ER: Nella mia esperienza di insegnamento ho visto e continuo a vedere come l'Italia prepari i suoi giovani a diventare ottimi relatori e, spesso, ottimi pensatori. Tuttavia trovo che questo Paese sia eccessivamente legato a schemi di pensiero tradizionali, mentre il mondo anglosassone è nettamente più pragmatico, meno tradizionalista, meno conservatore rispetto alla cultura europea in generale ed italiana in particolare. In Italia, nel mondo della cultura, e quindi anche nella fotografia, i nomi famosi sono sempre gli stessi, le carriere vengono costruite sul prestigio di un approccio, di una frase; una volta consolidate, viene impedito ad altri di avvicinarsi al "regno" che è stato costruito. In tutti i settori i nomi famosi sono gli stessi, oppure si tratta di giovani sconosciuti che rimangono perennemente tali. Quello che manca è una dialettica pubblica, un continuo confronto con le idee nuove. La conseguenza è che i pilastri culturali, per quanto di indubbio valore, finiscono per essere una zavorra nei confronti del progresso. Inoltre molta cultura italiana è fatta di apparenza, penso per esempio alla moda. Il fatto di essere un Paese tanto conservatore ha portato la moda a essere raffinatissima proprio perché si mantiene rigorosamente nel solco della tradizione. Lo stesso avviene per la cucina. E questi sono i lati più marcatamente positivi del tradizionalismo. Per quanto riguarda però l'aspetto dell'innovazione, le cose sono totalmente negative proprio perché manca completamente la dialettica, il confronto, lo stimolo a uscire dagli schemi.

od: Come è avvenuta la scelta di lavorare nella fotografia industriale?

ER: Il mio primo lavoro nel settore della fotografia industriale è stato per un'azienda che costruiva gru vicino a Lecco ed è stato del tutto casuale. Mi ero appena laureato e non sapevo nulla di fotografia industriale, non l'avevo mai fatta; motivo per il quale avevo proposto al committente di fare delle foto che gli avrei venduto solo se le avesse davvero trovate interessanti. Ricordo che per tre settimane ho fatto la spola tra Milano e Lecco facendo scatti e sviluppando foto, andando a Cinisello Balsamo alla sede della Kodak per risolvere i dubbi sulle modalità di sviluppo, perché il mio corso di laurea negli Stati Uniti non prevedeva la fotografia a colori. Quindi sono diventato col tempo e la pratica un esperto di emulsioni a colori, da autodidatta: chiedevo a tutti, andavo spesso in Kodak, mi facevo spiegare come funzionavano il processo Kodachrome e il processo Ektachrome; leggevo tutti i manuali Kodak, come quello sui filtri: non una vera e propria pubblicazione scientifica ma che spiegava come utilizzarli. Ricordo che quando mi venne proposto di lavorare per Time Life per Fortune Magazine, l'art director mi chiese stupita come facessi a ottenere foto con quei colori. Risposi che avevo letto i manuali della Kodak: facevo semplicemente come il produttore scriveva di fare! L'art mi chiese poi quante lampade usassi per ottenere quei risultati, e io risposi: nessuna, non ho lampade, è solo luce ambientale! Utilizzavo una Hasselblad con anche sei o sette filtri in gelatina contemporaneamente e in luce ambiente. Ho sempre lavorato in 6x6, tranne che sperimentalmente con Nikon per delle foto più spontanee.

od: Dalla spontaneità alla foto industriale è un salto insolito...

ER: In Italia era comune un approccio reportagistico alla fotografia industriale, anche perché quasi tutti i fotografi industriali venivano solitamente dal reportage, come Gianni Berengo Gardin. Il mio approccio era molto diverso. Nessuno usava open flash in fabbrica perché era necessario filtrare la macchina, contro-filtrare il flash, calcolare le differenze di luce e fare molte prove. Questo tipo di approccio mi ha permesso di avere un notevole successo, ma all'epoca non lo utilizzava nessuno. In questo modo potevo andare in fabbriche dismesse, cadenti, e ottenere foto uniche per l'epoca. Non fotografo la realtà così com'è ma riproduco un particolare momento della realtà. Le foto sono ricostruite, non esistono nella realtà così come sono state riprese. In questo modo ho acquisito un'enorme esperienza pratica con le emulsioni a colori. In occasione di un lavoro che ho svolto tanti anni fa mi è capitato di incontrare i tecnici della 3M che creavano le emulsioni: erano interessatissimi a parlare con me perché io applicavo per filo e per segno nella pratica quello che loro calcolavano in laboratorio. Io dicevo loro, ad esempio, che Polaroid passava da 5500 Kelvin a 2800 Kelvin in un certo arco di tempo, da 80ASA a 6ASA in un altro intervallo, perché in tutti gli esperimenti fatti avevo scoperto che era così, non c'erano calcoli empirici ma solo risultati ottenuti nella pratica. Per esempio, con il vecchio Polaroid D669 a 80ASA e 5500 Kelvin, un'esposizione di 5 secondi dava 40ASA e 3200 Kelvin. A parità di caratteristiche delle emulsioni potevi ottenere foto identiche all'Ektachrome 50ASA a patto di centrare un'esposizione precisa a 5 secondi. Se il tempo di esposizione era anche solo di poco inferiore o superiore, i risultati differivano in modo drastico. Ricordo che all'epoca lavoravo a 6-8ASA con il pacco filtri, con f11 di apertura e 45 secondi-1 minuto di esposizione. Il mio modo di fare foto dell'epoca era quello di creare una narrativa inventata che cercava di catturare la spontaneità della realtà e soprattutto il dinamismo della realtà. Non fotografo la realtà così com'è perché non è fotogenica; piuttosto preferisco ricreare un'ambientazione, un'immagine che la rappresenti al meglio.

fiat-hitachi

Questa foto è un tipico esempio di ciò che intendo. Quando mi venne commissionata, la joint venture tra Fiat e Hitachi era appena stata conclusa, quindi mi avevano chiesto di scattare foto per una brochure destinata all'annuncio ufficiale, che però riguardava qualcosa che esisteva soltanto sulla carta. Quindi abbiamo trovato una fabbrica in disuso adatta allo scopo e ho sistemato lo scavatore e i finti operai con le tute. Tutta l'inquadratura dunque è inventata, non riproduce una situazione reale ma secondo me ricrea perfettamente lo spirito della fabbrica. Ricordo che per scattare questa foto ho utilizzato non meno di otto filtri (tungsteno, mercurio, neon, ecc.), tre fonti di luce contrastanti, innumerevoli misurazioni con il termo-colorimetro, esposizione di 45 secondi. Le persone dunque dovevano rimanere immobili fino a quando non finivo di scattare, cosa ovviamente impossibile per un tempo così lungo. Quindi l'effetto mosso che si vede nella parte superiore del corpo è dovuto semplicemente all'atto di respirare, mentre si può apprezzare che le gambe sono perfettamente ferme. La foto è quindi totalmente ricreata partendo dal nulla, ma l'effetto complessivo riproduce fedelmente il concetto di spontaneità e dinamismo che volevo dare.

fabbrica bottiglie

Ecco un'immagine che esemplifica bene il mio concetto di fotografia. Si tratta infatti di un'altra foto ricreata ad arte, perché in fabbrica la linea di imbottigliamento è completamente diversa, non ci assomiglia nemmeno. Però questa foto ricrea perfettamente il concetto.

stiva nave

Quest'altra foto, che come si può apprezzare è in uno stile più reportagistico, è stata scattata all'interno della stiva di una nave da carico. La particolarità è stata che ho dovuto aggiungere successivamente i caschi, che nessuno indossava!

roche-bioxell

Anche questa immagine è rappresentativa del mio modo di lavorare. Questa foto ritrae una ricercatrice della casa farmaceutica Roche, impegnata in uno dei loro laboratori di ricerca. In realtà è stata scattata in studio, perché quando ho visitato il loro laboratorio mi sono reso conto che non sarei mai riuscito a ricavare una foto come volevo io. Quindi siamo andati nel mio studio, che ho attrezzato con una libreria Ikea che nasconde il flash, ed ecco il risultato.

od: Quali macchine utilizzavi in analogico?

ER: La mia carriera analogica è stata tutta con Hasselblad. Avevo delle Leica ma le ho vendute subito perché non si potevano fare belle foto a colori in quanto i mirini erano tendenti al monocromatico, erano fatti per il bianco e nero e quindi non ti aiutavano vedere a colori. Quando ho iniziato mi sono trovato pressoché "costretto" a utilizzare Hasselblad perché venivo da un'università dove avevo utilizzato sempre o il banco ottico o Leica in bianco e nero. Poi mi sono reso conto che il formato 6x6 quadrato è ancora oggi il migliore perché il formato quadrato possiede una magia che il formato rettangolare non ha, e quindi ti permette di creare una costruzione narrativa molto particolare, molto flessibile. Il formato 6x9, invece, è troppo particolare, meno flessibile. Oggi lavoro solo in digitale e per abitudine uso le Nikon: non che siano meglio di Canon, la differenza è davvero minima, direi infinitesimale. Nikon secondo me produce eccellenti grandangolo, più incisi rispetto a Canon, mentre i teleobiettivi Canon sono superlativi. Uso solitamente una Nikon D700, possiedo una D2x stupenda e presto acquisterò una D3x.

od: Quindi niente più Hasselblad?

ER: No, perché secondo me non ha più senso. Ai tempi dell'analogico la qualità che offriva la Hasselblad 6x6 semplicemente non era ottenibile con il 35mm, mentre oggi con una D3x o una D700 e un po' di post-produzione ben fatta si ottengono risultati eccellenti. Io ho avuto tutto di Hasselblad: tutte le macchine, tutti gli obiettivi, tutto. Avevo valigie piene di apparecchiature Hasselblad. Oggi però la Nikon D3x ha un'incisione superiore a Hasselblad con la pellicola, come un formato 10x12, mentre la qualità della D700 è tranquillamente paragonabile al 6x6 di allora. Con una Hasselblad non avrei potuto scattare foto come quella di un tanker petrolifero in Scozia a 4000ASA, un'immagine che è stata fatta praticamente al buio. Il bello della tecnologia digitale è che ti permette di fare foto assolutamente inesistenti. Quindi cavalletto, 1/125, f5,6, 4000ASA e via. Fare foto così prima del digitale era impossibile: si sarebbe dovuto fare come nelle produzioni cinematografiche, bombardando il set di luce e sotto-esponendo. Nei film western degli anni 50-70 le scene notturne venivano realizzate così: magari si girava a mezzogiorno o all'una, in piena luce, e si riprendeva con filtro blu sotto-esponendo di 3-4 diaframmi. Altrimenti sarebbe stato impossibile girare la notte, non si sarebbe visto niente. Invece la foto del tanker italiano in Scozia è fatta realmente di notte. Non si vedeva praticamente niente. Questa foto è stata fatta a 4000ASA con la Nikon D700. Per cui non c'è assolutamente paragone tra il digitale e l'analogico. Il digitale è di gran lunga superiore perché puoi ottenere risultati impensabili con l'analogico. Non era possibile, ingrandendo l'immagine, andare oltre una certa incisione. Con il digitale invece sì.

In analogico, sfumature così in 35mm era impossibile ottenerle, in 6x6 marginalmente, più addolcite. Ma in digitale si può lavorare a 4000ASA. Con una Hasselblad credo semplicemente non si possono ottenere questi risultati in queste condizioni. Anche con le nuove Hasselblad con dorso digitale mi dicono che si arrivi a 800ASA, o al massimo 1600ASA, ma con una grana grossa, un sacco di "rumore". Se vuoi la qualità della Hasselblad, che è tutt'ora straordinaria, dunque, è indispensabile una situazione ben illuminata. Io nella mia carriera ho sempre lavorato con luce ambientale e anche oggi per i miei scatti voglio utilizzare solo luce ambiente. Non faccio uso di set con le luci. Mi spiego ancora meglio: guarda questa foto fatta con la D700 il giorno in cui l’ho acquistata, scattata di sera sotto la pioggia, a 6200-6400ASA e 1/30 a mano libera.

d700 night

Un'immagine di questa qualità, con questo livello di incisione non si può ottenere in analogico, nemmeno con il bianco e nero. E senza nemmeno il filtro Noise Ninja che smorza ulteriormente le grana dell'immagine. È quasi come la qualità di una foto 6x6 in studio. Oggi in digitale puoi ottenere foto in bianco e nero impensabili con la pellicola.

od: Trovi che sia necessario però utilizzare sempre i giusti strumenti, di qualità professionale, intendo?

ER: Assolutamente. Oltre alla macchina fotografica, trovo che sia fondamentale la qualità del monitor. Io utilizzo un Eizo che ricalibro ogni dieci giorni per essere certo di mantenere la fedeltà dei colori in fase di stampa. Anche lo scanner che ho scelto per archiviare il miei lavori trovo che sia superlativo (Hasselblad) ma non potrebbe essere altrimenti. Per le stampe e per confrontarle con quelle che usciranno dalle linee di stampa tipografica utilizzo un visore di luce diurna riflesso Just Image Pro e una stampante calibrata Epson.

Edward Rozzo, a dispetto del cognome, è una persona amabile e schietta al tempo stesso, educata e brillante, lucida in ogni sua analisi e distinzione. Durante il nostro incontro si è parlato del nostro Paese in vari modi, dalla bellezza e immensità del suo patrimonio artistico fino al pragmatismo che contraddistingue molti settori, dalla cultura al più remoto officio artigiano. Mai senza acredine o rimprovero, tipico delle persone che sono abituate a guardare il mondo, a osservarlo con un occhio critico, proprio di coloro i quali sanno trarre particolari quasi nascosti anche da immagini che sembrano estremamente esplicite. Siamo felici di aver fatto la sua conoscenza e speriamo di incontrarlo di nuovo molto presto. Ci auguriamo che il piacere sia stato possibile condividerlo anche con tutti voi.


Edward Rozzo
www.edwardrozzo.it
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